L’infortunio invisibile del mondo moderno
Nel mondo dello sport, che offre straordinari parallelismi con quello aziendale, accade spesso che gli atleti si infortunino e non possano prendere parte alle competizioni. In parole semplici, il loro corpo non è pronto a sostenere la gara. Ma cosa accade quando ad “infortunarsi” è la mente?
Quando, nel mondo del lavoro, le persone non sono più nella condizione ideale per affrontare le sfide quotidiane, pur restando al loro posto? Gli sportivi lavorano con il corpo (anche con la testa, certamente) ma nel mondo professionale si lavora soprattutto con la mente: con la capacità di analizzare, decidere, risolvere problemi e relazionarsi con gli altri.
Eppure, anche qui, gli infortuni accadono. Solo che non si vedono. Per aprire il tema vale la pena citare il concetto di "Burnout", termine spesso associato all’ambiente medico e ospedaliero.
Descrive un vero e proprio collasso psicologico, una condizione di esaurimento dovuta al sovraccarico emotivo e cognitivo di chi è chiamato ogni giorno a prendere decisioni complesse e delicate.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito il burnout nella classificazione internazionale delle malattie come fenomeno legato al lavoro, riconoscendo così che non si tratta di semplice stress, ma di un logoramento profondo della persona. Se trasliamo questo concetto al mondo aziendale, possiamo facilmente individuare dinamiche simili: professionisti sotto pressione, costantemente esposti a obiettivi, imprevisti, responsabilità e relazioni da gestire.
Il risultato è la presenza di “giocatori in campo” fisicamente presenti ma mentalmente assenti, incapaci di esprimere il proprio reale potenziale. Nella mia esperienza incontro spesso persone che definisco in crisi di autogoverno: soggetti che non riescono più a gestire se stessi, le proprie emozioni o i propri ritmi, ma continuano a rimanere “in partita” per senso del dovere, paura del giudizio o semplice automatismo.
È una condizione più diffusa di quanto si pensi, figlia di un modello culturale che premia la costanza ad ogni costo, la dedizione totale, il “non mollare mai”.
Valori nobili, certo, ma che se spinti all’estremo diventano gabbie psicologiche. Tutto ciò che è rigido, in natura, tende a rompersi. E lo stesso vale per la mente. Sapersi fermare, ascoltare il proprio livello di stress, imparare a disinnescare la tensione non è segno di debolezza, ma di intelligenza emotiva.
Nel mondo dello sport, il riposo è parte integrante dell’allenamento, è il momento in cui il corpo assimila lo sforzo e si rigenera.
Allo stesso modo, anche la mente ha bisogno di spazi di recupero, di decompressione, di silenzio. Pensare che basti un weekend in montagna o in famiglia per “ricaricare le batterie” è una visione parziale.
Il benessere mentale non si costruisce con la semplice distrazione, ma attraverso momenti autentici di sfogo, introspezione e rielaborazione. Occorre dare spazio alle emozioni, lasciar defluire paure e tensioni, riconoscere la stanchezza e concederle ascolto. Tutti, prima o poi, ci infortuniamo.
Che lo ammettiamo o meno, anche la mente può incrinarsi, affaticarsi, fermarsi. Il segreto non è evitare gli infortuni, ma riconoscere quando è il momento di rallentare per guarire. Solo così possiamo ambire a lunghe stagioni di risultati, personali e professionali. Perché la vera forza non sta nel correre sempre, ma nel sapere quando fermarsi per ripartire più forti