Dalla caverna al cliente: la paura primordiale dei venditori

Quando il “rifiuto” mette in discussione il nostro valore: il rischio emotivo che si nasconde nell’incapacità di saper gestire in modo corretto le dinamiche del mondo delle vendite che possono minare al nostro equilibrio

 
 

Qualche tempo fa scrissi un articolo sulla Sindrome di Stoccolma, facendo un parallelismo con il comportamento di alcuni venditori che finiscono per sentirsi “intrappolati” nel rapporto con i propri clienti, sviluppando una sorta di attrazione o dipendenza verso di loro.

Potremmo definire questa come una tipica “interferenza emotiva” che complica la vita di chi deve vivere incontrando quotidianamente persone diverse. Ma non è certo l’unica. Chi lavora nel complesso mondo delle vendite sa bene che si tratta di un mestiere affascinante ma psicologicamente impegnativo. Molti professionisti del settore, infatti, soffrono di varie forme di stress o disagio legate proprio alla natura del loro lavoro.

Ci sono almeno due grandi “famiglie” di problemi che tormentano i venditori, ed entrambe hanno una radice comune: il rifiuto. Vorrei soffermarmi su questo aspetto, spesso sottovalutato ma potentissimo, capace di “atterrare” psicologicamente anche i più esperti.

Chi si occupa di vendite, in fondo, si occupa di creare relazioni. E come sappiamo, le relazioni (tutte) sono complesse. Figurarsi quelle tra cliente e fornitore, dove entra in gioco anche la convenienza economica.

Essere rifiutati nel mondo aziendale è normale, ma per i venditori questo momento assume un’intensità emotiva particolare. Non riguarda tutti, ma almeno l’80% di loro lo vive con grande coinvolgimento. Ed è perfettamente comprensibile. L’essere umano è un animale sociale. Ha bisogno di sentirsi utile, accettato, parte di un gruppo. Migliaia di anni fa l’esclusione significava morte: chi veniva allontanato dalla tribù era destinato a soccombere.

Oggi non rischiamo di essere sbranati da animali feroci, ma il meccanismo psicologico è lo stesso: il rifiuto ci mette in discussione, mina la nostra autostima, ci fa dubitare del nostro valore. E per chi vive di vendite, il rifiuto continuo può tradursi anche in un rischio professionale concreto: “essere messo fuori dalla caverna”, cioè perdere il lavoro. Fin dall’infanzia sperimentiamo l’esclusione, essere lasciati da un amico, da un partner, da un gruppo, e ogni volta si riattiva quella ferita primordiale.

I venditori rivivono queste micro-esperienze di rifiuto più volte al giorno, e se non sono preparati a gestirle, accumulano un’enorme tensione emotiva.

Per questo motivo, chi si occupa di relazioni commerciali dovrebbe essere formato non solo sulle tecniche di vendita, ma anche sul dialogo interiore, cioè sulla capacità di affrontare la voce dentro di sé che dice: “Non vali abbastanza”. Sviluppare la resilienza psicologica, allenare la mente a separare il no dalla propria identità, è il primo passo per mantenere equilibrio e serenità.

Il problema nasce proprio quando ci identifichiamo con il rifiuto, quando interpretiamo un “no” come un giudizio sulla nostra persona.

E così si entra in una prigione emotiva che può generare paura, sudditanza o eccessiva reverenza verso il cliente. È in questo momento che il venditore smette di essere efficace: perché ha perso la libertà di restare se stesso. Il rifiuto fa parte del viaggio di chi vende. Pensare di evitarlo è pericoloso; imparare a gestirlo, invece, è salvifico.

Preparare percorsi formativi che aiutino i venditori a costruire una sana forza interiore non è più un lusso, ma una necessità.

Perché la vera differenza, in una negoziazione, non la fa solo chi sa “colpire bene”, ma chi sa restare in piedi sul ring. Sempre.

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L’infortunio invisibile del mondo moderno